martedì 25 agosto 2009

La dermatite allergica da pulce o D.A.P.

L'allergia alle pulci (Ctenocephalides felis, ovvero la pulce del gatto, sembra la specie più implicata) continua ad essere l'ipersensibilità più diffusa sia nel cane che nel gatto.
Si tratta di una dermatite papulo-crostosa, molto pruriginosa dovuta appunto alla sensibilizzazione da parte del soggetto parassitato, nei confronti di alcune sostanze presenti nella saliva della pulce: essa infatti contiene polipeptidi, aminoacidi, composti aromatici ed altre sostanze, tutte dotate di un forte potere antigenico.
L'importanza che riveste tale dermatite è dovuta sia alle conseguenze dell'allergia stessa che al rischio legato al fatto che può potenziare altre patologie preesistenti. Ad esempio la D.A.P. tende ad aggravare l'atopia e anzi spesso i due disturbi si presentano assieme. Inoltre la cute asciutta e squamosa può intensificare il prurito, con le conseguenti lesioni traumatiche e relativa infezione (piodermite) che il grattamento comporta. Inoltre va ricordato che nei casi di allergie multiple, quella alle pulci è la maggiore causa di fallimento delle terapie o di recidiva dei sintomi.
Importante ricordare che questo tipo di dermatite non ha predilezioni di razza o di sesso, invece per quanto riguarda l'età sebbene sia i gatti che i cani possano svilupparla in qualsiasi momento, è assai raro che i segni clinici compaiano in animali inferiori ai 6 mesi di età, l'insorgenza è infatti più comune tra i 3 e i 5 anni.
Una caratteristica di questa dermatite in merito alla localizzazione è che le lesioni cui dà luogo sono tipicamente confinate sul dorso e sulla groppa, sulla superficie caudo-mediale delle cosce, sulla parte ventrale dell'addome, sui fianchi e sul collo.
Non sono rare, come accennavo sopra, anche la dermatite piotraumatica (hot spot), la piodermite, l'alopecia e la seborrea secondarie a D.A.P.
Nei gatti si possono riscontrare altresì ulcere indolenti, placche eosinofiliche, granuloma eosinofilico e varie combinazioni di queste tre lesioni con linfoadenopatia delle regioni interessate.
Nelle aree geografiche caratterizzate da inverni freddi questa dermatite ha un tipico andamento stagionale con picchi durante l'estate e l'autunno, mentre in zone con climi caldi e laddove persiste un'infestazione dei locali domestici, l'ipersensibilità al morso di pulce può non avere questo andamento caratteristico, nonostante si riscontrino più facilmente recrudescenze comunque in estate/autunno.
In quanto alle diagnosi differenziali vanno prese in considerazione per il cane l'ipersensibilità alimentare, l'atopia, l'ipersensibilità da farmaci, quella da parassiti intestinali ed infine la follicolite.
Invece per il gatto (in cui si presenta spesso in forma miliare diffusa o nella regione del collo) oltre alle patologie già citate per il cane, vanno escluse anche altre parassitosi: da acari (Trombicula, Otodectes, Cheiletiella) da pidocchi, da dermatofiti e poi squilibri dietetici come la carenza di biotina e/o di acidi grassi e ovviamente la sindrome del granuloma eosinofilico (anche se quest'ultima entità può essere anche una conseguenza della D.A.P.).
La diagnosi definitiva in ogni caso si basa principalmente su l'anamnesi, l'esame fisico, il saggio cutaneo intradermico con antigeni di pulce e ovviamente la risposta alla terapia.
In genere già la distribuzione e l'aspetto delle lesioni cutanee, come abbiamo detto, sono molto indicative.
E poi chiaramente la presenza delle pulci o comunque delle loro deiezioni (visto che di solito spendono la maggior parte della loro vita lontano dall'ospite) è un ulteriore ausilio diagnostico.
Il sintomo più evidente e di conseguenza più frequentemente rilevabile dal proprietario (prima ancora che si sviluppino le lesioni) è il prurito: l'animale si morde nervosamente e si lecca senza sosta, particolarmente nella regione pelvica.
La gravità delle lesioni che si svilupperanno in seguito dipenderà dalla reattività del soggetto e dalla sua esposizione ai parassiti; ma comunque la classica allergia da pulci inizierà con la formazione di lesioni a forma di cuneo alla base della coda, estendendosi quindi anche sul bordo caudale delle cosce e finendo per interessare altresì l'addome e la regione inguinale.
Arrossamento (eritema), perdita di pelo (alopecia), presenza di scaglie e papule sono i segni tipici della malattia. L'iperpigmentazione e l'ispessimento della cute (lichenificazione) degli arti pelvici e della regione inguinale sono tipici di un'allergia cronica alle pulci.
E veniamo finalmente alla terapia. Pare scontato, ma la prima cosa da prendere in considerazione è quella di eliminare la causa principale del problema, ovvero le pulci. Dunque il primo necessario intervento riguarderà il controllo di tali parassiti, attraverso il trattamento dell'ambiente (dove possibile) e dell'animale, tramite l'utilizzo di vari presidi (insetticidi spray, spot on, in shampoo, ecc.) oggi a disposizione.
Ormai c'è solo l'imbarazzo della scelta; ma per non rischiare di spendere soldi inutilmente, rivolgetevi al vostro veterinario di fiducia, che sarà in grado di segnalarvi quello o quelli più indicati per la situazione del vostro pet: attenzione a considerare il fatto che alcuni prodotti che vanno bene per il cane sono pericolosamente tossici per il gatto!
La seconda fase della terapia mira a tenere sotto controllo le conseguenze dell'allergia, ovvero il prurito con le lesioni conseguenti al grattamento (traumatiche) , ma soprattutto quelle dovute alla liberazione di sostanze mediatrici dell'infiammazione (istamina, serotonina, ecc.) ed infine quelle date dalle infezioni secondarie (piodermiti).
Da quanto appena detto si deduce che sono importantissimi gli antiallergici per eccellenza ovvero i glucocorticoidi, e laddove questi risultassero insoddisfacenti si può ricorrere anche agli antistaminici.Fondamentale è anche una terapia antibiotica mirata a controllare le infezioni cutanee secondarie ad autotraumatismo e favorite da una cute alterata dalle reazioni allergiche unita alla somministrazione di integratori a base di acidi grassi insaturi e vit.E, per facilitare la guarigione delle lesioni cutanee e il ristabilirsi dell'equilibrio dermatologico.
Un capitolo a parte meriterebbe poi la terapia iposensibilizzante, ma siccome è ancora in fase di studio e dunque dai costi proibitivi, senza contare che per il momento i risultati sono troppo controversi per poter essere adottata su vasta scala, eviterò di creare illusioni in merito.

giovedì 20 agosto 2009

Randagismo, colonie feline ed implicazioni legislative

Dopo una prolungata pausa estiva, dovuta anche a seri problemi col PC, volevo riprendere a scrivere proprio pubblicando delle riflessioni in merito ad un articolo apparso sul numero di Summa n°6 e scritto da Paola Fossati e Franco Pezza (responsabili della sezione Medicina Legale Veterinaria del Dipartimento di Scienze Cliniche Veterinarie dell'Università statale di Milano) che ha per tema la questione del randagismo e le definizioni legislative dei termini "randagio" e "colonia felina".
Vedremo di seguito che, nonostante nel parlare comune spesso si usi il termine randagio, così come si fa per i cani, anche per definire un gatto senza proprietario (o presunto tale), in realtà le cose non sono poi così semplici.
Il lessico giuridico e quello comune infatti non sono sempre pienamente convergenti, e questo crea spesso fraintendimenti, dubbi e difficoltà di interpretazione delle leggi vigenti in materia.
In questo caso la normativa in questione è la Legge n.281/91 che ha per tema proprio la prevenzione del randagismo, per applicare la quale s'impone preventivamente la necessità di individuare a quali animali il legislatore intenda riferirsi in concreto, ovvero in quali casi un animale d'affezione assuma propriamente lo status di "randagio".
Va ricordato a questo proposito che nella norma giuridica il termine randagio indica propriamente solo una condizione particolare in cui si viene a trovare il cane, ma non si estende mai al gatto.
Facendo un passo indietro bisogna far riferimento, in ossequio all'etimologia del termine, al precedente D.P.R. n. 320, ovvero al Regolamento di Polizia Veterinaria del 1954 (art.85, capo V - Rabbia), in cui per randagio si intende il cane trovato vagante e quindi non tenuto al guinzaglio e altresì privo della prescritta museruola (si noti che manca ogni riferimento alla presenza del proprietario).
In realtà nel testo originario il termine randagio non compare come tale, ma che la suddetta perifrasi lo voglia intendere è confermato da successive circolari esplicative emanate in merito alla profilassi della rabbia, in cui si legge:
-l'azione sanitaria contro la rabbia ha consentito di raggiungere tangibili vantaggi, grazie alla cattura di un numero sempre più elevato di cani "randagi"catturati;
-particolare attenzione dovrà essere rivolta al servizio di accalappiamento dei cani "randagi", che costituiscono il principale, se non l'unico e fondamentale, fattore di diffusione del contagio rabido;
-per ottenere risultati più tangibili è necessario che il servizio si svolga principalmente nelle ore notturne.
Nel vocabolario della lingua italiana, il termine randagio si dice di animale senza padrone, mentre lo studio etimologico collega il termine randagio a malvagio, inducendo una valutazione negativa e di pericolo.
Sempre nel linguaggio comune il randagismo diventa la condizione degli animali domestici senza proprietario o detentore e, quindi, secondo alcuni anche del gatto.
Attribuire anche al gatto la definizione di randagio è però improprio. Il gatto infatti non può trovarsi nella stessa condizione giuridica del cane "randagio", in quanto può essere vagante senza museruola o guinzaglio. Ma non lo si può definire randagio neppure nel senso comune e letterale del termine, perché si può praticamente sempre individuarne un proprietario o un detentore responsabile, equiparato al proprietario ai sensi dell'art.931 del C.C.
Non fa parte delle abitudini comportamentali del gatto, infatti, il girovagare senza meta negli agglomerati urbani o su di una pubblica strada. Tale atteggiamento può, eventualmente, manifestarsi soltanto in fase transitoria, di trasferimento da un proprietario all'altro, alla ricerca di condizioni ambientali più favorevoli per quel che riguarda il ricovero e l'alimentazione. In tal senso si esprime pure la Legge n.281/91, che chiama i gatti "animali in libertà".
Una situazione particolare che merita poi menzione a parte è quella delle cosiddette colonie feline: nei centri abitati infatti si possono individuare popolazioni di gatti (definite appunto colonie feline), che sembrano vivere in uno stato di naturale libertà, ma che quasi sempre sono assistiti da privati cittadini che si fanno carico di alimentarli e custodirli (a Roma vengono talvolta identificati come "gattari/e").
Inoltre essi si insediano di preferenza in luoghi afferenti a soggetti sociali determinabili.
Quando "colonizzano" i condomini ad esempio, i gatti vengono a trovarsi in ambienti gestiti da un amministratore (dello stabile), che dunque può essere individuato come detentore responsabile, suo malgrado!
Oppure le colonie occupano le pertinenze di uno stabilimento industriale, sotto la responsabile gestione del titolare o amministratore dell'impianto.
Se invece vivono presso edifici pubblici, è colui che ha la responsabilità giuridica degli stessi ad essere investito della competenza sullo stato di benessere dei gatti; mentre nel caso in cui siano presenti complessi ospedalieri o altre istituzioni sanitarie o socio-sanitarie, le colonie investono direttamente la responsabilità del direttore amministrativo o sanitario della struttura.
Ancora, se le colonie sono presenti nei cantieri edili responsabilizzano direttamente il referente legale della ditta. Infine, sempre a titolo esemplificativo, le colonie possono essere presenti in aree demaniali libere, non circoscritte, e in tal caso diventa legittimo l'intervento forzoso della Pubblica Amministrazione.
In conclusione nella gestione delle colonie feline è quasi sempre possibile, contrariamente a quanto accade per i cani randagi, individuare correttamente il proprietario o detentore responsabile, che se da un lato assume il diritto su di esse (ad esempio di opporsi a provvedimenti restrittivi posti in atto dall'autorità sanitaria), analogamente deve però farsi anche carico del rispetto delle condizioni di benessere dei soggetti componenti delle colonie e dei danni eventualmente da loro causati (preciso dovere del detentore responsabile).
In definitiva, si possono avere due situazioni:
- il proprietario/detentore è noto e quindi è responsabile di eventuali danni cagionati dalla stessa (omessa custodia), salvo il caso fortuito di cui all'art. 2052 del C.C., nonché destinatario dei provvedimenti delle misure restrittive di polizia veterinaria, delle norme sul benessere animale e delle norme di igiene del suolo e dell'abitato;
- il proprietario/detentore non è individuabile e allora nessuno ha il diritto di opporsi ai provvedimenti coattivi dell'autorità competente.

Come si vede anche se nel parlare quotidiano utilizziamo indifferentemente sia per il cane che per il gatto il termine randagio, in effetti commettiamo un'imprecisione oltre che per quanto riguarda gli aspetti legislativi, in quanto le due specie sono sottoposte a regolamenti differenti, anche dal punto di vista comportamentale, dal momento che cane e gatto non si somigliano affatto per quanto riguarda il modo di condurre la propria esistenza e le implicazioni che ne conseguono: la tanto famosa indipendenza felina infatti, unita alla frequentazione di un territorio circoscritto, fanno infatti del gatto un soggetto stanziale e dunque molto più facilmente controllabile del cane, quando è lasciato a se stesso.

Il cane infatti per sua natura tende ad organizzarsi in branchi che, per procurarsi il cibo, possono diventare anche pericolosi, senza contare il fatto che tendono a vagare su un territorio molto più ampio e difficilmente circoscrivibile rispetto a quello delle cosiddette colonie feline. Attenzione dunque a non fare di tutta un erba un fascio, dal momento che la condizione di libertà per il cane e per il gatto comporta notevoli differenze...