venerdì 13 giugno 2008

Biocentrismo o Antropocentrismo?

Oggi mi piacerebbe trattare un argomento al limite tra il filosofico e il teologico, ovvero la concezione che regna nella nostra cultura a preponderante matrice cattolica riguardo il rapporto uomo-animale.
E dato che la mia preparazione in termini religiosi per vari motivi è piuttosto carente attingerò ad un articolo di Franco Lamensa che ritengo molto ben fatto e che si rifà a diversi libri sull'argomento.
Dal momento che si tratta di un lavoro piuttosto articolato e complesso citerò degli estratti significativi, per dar modo di riflettere sull'importanza di tale problematica che ritengo essere molto vasta anche perché investe ben più ampi settori del vivere umano.
"Esiste un antropocentrismo laico, legato a logiche utilitaristiche e consumistiche intese solo alla massimizzazione dei profitti e del benessere immediato e materiale (si pensi alla vivisezione e agli allevamenti intensivi), oppure legato a particolari contesti culturali/filosofici in cui il primato dell’intelligenza umana comporta, come corollario, anche il diritto alla rapina, alla violenza, alla distruzione dei non-umani (si pensi alle gerarchie dell’intelletto di Aristotele o agli autòmata del razionalismo di Cartesio). Ed esiste un antropocentrismo religioso, che spesso costituisce il fondamento ideologico dell’antropocentrismo laico, ed è quello di chi parla di Dio come se si trattasse di un concetto a suo uso e consumo e intende l’azione creatrice come un dono esclusivo di Dio all’uomo, quasi a dire che, a parte l’uomo, tutta la creazione risulti accessoria e secondaria.

L’homo religiosus antropocentrico è spinto a classificare il mondo o ponendosi al suo esterno, quasi senza percepire di esserne parte integrante, oppure dal suo interno, ma ritenendosi, in questo caso, il parametro ultimo in grado di dare un senso a tutto ciò che esiste.
A pagare il prezzo più alto di questo strabismo teologico è di solito il mondo animale, umiliato, sfruttato, snobisticamente escluso da ogni dignità creaturale e religiosa, come a dire che la spiritualità è un fatto del tutto umano e che non esiste nessuna consolazione e nessuna salvezza per chi non appartiene al genere "eletto" degli uomini.
Il sentimento di tenerezza e il coinvolgimento pieno di stupore per la bellezza di ogni vita creata è il "modo di dirsi di Dio all’uomo", di quel Dio Creatore che ripetutamente ribadisce la sua volontà di allearsi con tutto ciò che vive sulla terra (Genesi 9, 11-17).

Dio "patisce" nelle creature e "agisce" in previsione della loro consolazione e salvezza. Ogni cosa è "tov" (buona) per il Creatore. Quel pregiudizio, purtroppo frequentissimo, secondo cui preoccuparsi degli animali significherebbe trascurare gli uomini, non ha fondamento nella Bibbia, e spesso denuncia la volontà di non occuparsi né degli uni, né degli altri.
Così Michel Damien riassume e commenta questa falsa alternativa: "Quante discussioni per sapere se è meglio proteggere gli orfani di guerra e i bambini percossi dai genitori nei tuguri urbani oppure i cuccioli di foca sgozzati vivi sulla banchisa o gli orsi che impazziscono nei giardini zoologici! Come ha potuto la coscienza cristiana, la coscienza umana, crearsi simili dilemmi?
Tutto è da scegliere, tutto è da fare. Nessun essere fra quanti soffrono e muoiono deve essere escluso" (Gli animali, l’uomo e Dio; ed. Piemme).
"La tradizione cristiana si è quasi sempre nutrita di un antropocentrismo orgoglioso: tutto è ordinato all'uomo, referente unico, solo orizzonte della creazione, signore e re assoluto sul cosmo, culmine e fine dell'opera creazionale. La vocazione delle cose e quindi degli animali è il servizio all'uomo, così come l'uomo ha la vocazione a servire Dio e amarlo...
Nessuno può negare che il cristianesimo occidentale, soprattutto nel secondo millennio, ha coltivato una fede acosmica dove la natura, gli animali e i vegetali costituiscono semplicemente il contesto per l'uomo, il suo ambiente.

Paura del panteismo pagano, certo, paura di divinizzare animali, piante e cose, timore di attentare all'alterità trascendente del divino, ma anche riduzione della natura a fornitrice di cibo per l'uomo, in un rapporto che sostanzialmente non vede solidarietà ma solo mera funzionalità nei confronti del 're della natura'.
Non vi è in questo una fuoriuscita dall'ottica della comunione, a tutto favore dell'ottica del consumo?…
Proprio per questo, e sovente con ragione, gli uomini culturalmente cristiani sono individuati tra i responsabili della devastazione e dello sfruttamento del pianeta, mentre nella recente 'conversione' di alcuni ambienti cristiani all'ecologia non è assente una nuova subordinazione della creazione alla preoccupazione prioritaria per la sopravvivenza dell'uomo" (Enzo Bianchi, Uomini e animali, Qiqajon).
Ci sono indubbiamente segnali di risveglio della sensibilità religiosa verso gli animali.
L’enciclica Sollecitudo rei socialis (1987) di Giovanni Paolo II al paragrafo 34 parla specificatamente del bisogno di rispettare "la natura di ogni essere" all’interno della creazione, e sottolinea la moderna visione che ciò che "il dominio concede all’uomo… non è un potere assoluto, né si può parlare di libertà di disporre delle cose come più ci aggrada".
Il Messaggio sulla pace e la salvaguardia del creato (1990) del Papa afferma che "non solo l’uomo ma anche gli animali hanno un soffio divino".

Il documento congiunto della Chiesa Evangelica e della Chiesa Cattolica di Germania dal titolo Responsabilità per il creato (1985) evidenzia che c’è "un modo di intendere la natura che pone erroneamente al centro l’uomo e considera la natura solo come oggetto")
Malgrado tutto questo, è sempre vero purtroppo che buona parte della tradizione ecclesiastica, molti teologi e tanti preti continuano a negare che gli uomini abbiano dei doveri diretti verso gli esseri non-umani.
Non si può nascondere: il mondo cattolico ha un orientamento dominante di indifferenza e di disinteresse, quando non di rifiuto e di opposizione, nei confronti della questione animale.

La visione cristiana non è dunque 'biocentrica', ma 'antropocentrica'; non ritiene che il valore supremo della creazione sia la 'vita', come pensano coloro che professano il biocentrismo, in particolare gli animalisti, ma afferma che il valore supremo della creazione è l'uomo, in quanto è l'unica creatura spirituale e dunque intelligente, libera e autocosciente, e in quanto è l'unica creatura che, essendo stata creata a immagine di Dio, è capace di entrare in comunione con Lui e di partecipare alla sua natura divina [...].
Gli animali non hanno 'diritti' né possono essere soggetti di diritti, perché solo la persona, proprio perché di natura spirituale, può avere diritti […].
Solo l'uomo, in quanto essere spirituale e quindi non vincolato deterministicamente alla materia […] è capace di amare, mentre tutti gli altri esseri rimangono chiusi in se stessi".
Anche il "Catechismo della Chiesa Cattolica" (1992) recepisce la tradizione antropocentrica e si attesta su posizioni non dissimili, nella sostanza, da quelle prima considerate. Vi si precisa che "Dio ha consegnato gli animali a colui che egli ha creato a sua immagine.
È dunque legittimo servirsi degli animali per provvedere al nutrimento o per confezionare indumenti. Possono essere addomesticati, perché aiutino l'uomo nei suoi lavori e anche a ricrearsi negli svaghi.

Le sperimentazioni mediche e scientifiche sugli animali, se rimangono entro limiti ragionevoli, sono pratiche moralmente accettabili, perché contribuiscono a curare o salvare vite umane"
Si ha cura di sottolineare che la benevolenza verso i non-umani ha dei limiti precisi: infatti è "indegno dell’uomo spendere per gli animali somme che andrebbero destinate, prioritariamente, a sollevare la miseria degli uomini".
Ma quali sono i "limiti ragionevoli" della sperimentazione scientifica e chi li stabilisce?
È davvero "moralmente accettabile" l' idea che la vita umana ed il benessere degli esseri umani abbiano un così alto significato da giustificare l'uso istituzionalizzato di milioni di animali in procedimenti sperimentali atroci che infliggono grande sofferenza?
In Italia il dato totale degli animali vittime di esperimenti si divide come segue: 356.000 topi, 688.145 ratti, 31.564 cavie, 31.004 conigli, 897 cani, 263 gatti, 1.708 suini, 583 scimmie, 6.761 uccelli, 910 rettili, 1.725 anfibi, 3.645 pesci.

Dai cacciatori italiani vengono uccisi ogni anno 150 milioni di uccelli migratori; esclusi gli uccelli, il totale degli animali uccisi ogni anno in Italia nello "sport" della caccia raggiunge i 300 milioni di capi.
Nel mondo ogni anno vengono uccisi, per prelevarne la pelliccia, dai 15 ai 20 milioni di mammiferi selvaggi, la maggior parte catturati con tagliole.
Come si fa ad "essere benevoli" con gli animali nella consapevolezza che il denaro che destini al loro benessere è speso "indegnamente"?
Le campagne di sensibilizzazione pubblica, la gestione dei ricoveri, la stampa pubblicistica, le spese veterinarie, le iniziative legali contro i maltrattamenti sono i modi con cui concretamente (al di là di una benevolenza di maniera inutile e un po’ ipocrita) si difendono e si amano gli animali: tutto ciò non può realizzarsi senza spese – anche ingenti, talora – di denaro!
Perché le nazioni dove gli animali vengono meno rispettati e più crudelmente perseguitati, sono quelle cristiane dell'Europa mediterranea e dell'America latina?
Perché le stragi di animali che si effettuano durante le feste religiose della cattolicissima Spagna, non solo non vengono condannate, ma sono addirittura patrocinate da confraternite e da parroci, senza che le autorità diocesane, salvo qualche rara eccezione, abbiano nulla a ridire?

Perché tanto disinteresse ed indifferenza, anche in Italia, sulla sorte degli animali, in particolar modo sull'uccisione lenta, dolorosa, straziante degli agnelli, che cinque volte nella Messa vengono evocati per simboleggiare il Figlio di Dio?
Perché c'è il silenzio pressoché assoluto da parte della catechesi, e quindi anche della morale, sul comportamento che i cristiani dovrebbero avere con gli animali?
Senza pretendere, ovviamente, di dare risposta a questioni così aperte e complesse, si può capire l’aridità affettiva di un certo cattolicesimo ecclesiastico verso i non-umani esaminando il pensiero del gigante della tradizione cattolica, Tommaso d’Aquino (1225-1274), la cui teologia domina ancora oggi su molta parte del pensiero della Chiesa, anche quello relativo agli animali.

Per Tommaso (e con lui la morale dominante della cultura teologica cattolica) gli animali non possono rivendicare alcun diritto presso gli uomini, neppure quello della loro sopravvivenza, per i seguenti motivi:
a) non sono amici dell’uomo;
b) l’ordine naturale delle cose prevede che il più debole e imperfetto sia sacrificato alle necessità del più forte e perfetto;
c) gli animali sono privi della ragione quindi sono per natura schiavi dell’uomo, essere razionale;
d) nemmeno Dio ama gli animali, o più precisamente li ama non in se stessi, ma poiché essi rappresentano delle scorte alimentari per l’uomo.
Tanto il Vecchio quanto il Nuovo Testamento però sconfessano le audaci e spietate interpretazioni tomistiche.
E ciò non può sorprendere, se si considera che qui il fondamento di Tommaso non è biblico: la tradizione che sostiene che agli occhi di Dio la creazione non-umana non ha valore se non come nostro strumento, ha origini greche e non ebraiche.
In Tommaso la Genesi viene interpretata nei termini del percorso aristotelico che vede la natura come un sistema gerarchico-dispotico nel quale è scontato che il maschio sia superiore alla femmina, la femmina allo schiavo e lo schiavo alla bestia, e così via in ordine intellettuale decrescente.
Dunque, in una prospettiva teologica cristiana, la debolezza delle concezioni di Tommaso sugli animali deriva da ciò che del suo pensiero proviene da fonti elleniche.

Due assiomi di Aristotele sono assorbiti quasi senza la minima obiezione.
Il primo è che solo gli uomini sono razionali.
Il secondo è che gli animali non hanno alcuno scopo funzionale oltre a quello di servire gli esseri umani.
Il problema serio nel nostro rapporto con gli animali è che la nostra visione e percezione, i nostri occhi sono ostruiti; non fosse così, tutto ci apparirebbe opera di Dio, in relazione con lui.
Noi dobbiamo ritrovare Dio al cuore della vita, vederlo all'opera nella terra da lui creata, in relazione con tutte le creature.
Dovremmo esercitarci alla conoscenza degli esseri, per imparare la contemplazione della natura, per avere lo stesso sguardo di Gesù quando osservava gli uccelli dell'aria, la chioccia che raduna i pulcini, le piante da frutto messaggere dell'estate, i gigli dei campi più eleganti di Salomone…
Scrive l’antropologo francese Claude Lévi-Strauss: "Ancor oggi, si direbbe che in noi è rimasta la confusa coscienza della primitiva solidarietà tra tutte le forme di vita. Niente ci sembra tanto importante quanto il fatto di imprimere il sentimento di questa continuità, sin dalla nascita o quasi, nello spirito dei nostri bambini. Li circondiamo di simulacri di animali di gomma o di peluche, e i primi libri che gli mettiamo sotto gli occhi mostrano loro, ben prima che li abbiano mai incontrati, l’orso, l’elefante, il cavallo, l’asino, il gatto, il cane, il gallo, la gallina, il topo, il coniglio… come se fosse necessario imprimere nei nostri piccoli, sin dalla più tenera età, la nostalgia di una unità che riconosceranno ben presto perduta".

Davvero, noi uomini dovremmo saper riconoscere negli animali dei "compagni di viaggio".
Gli animali sono una presenza, e spesso, soprattutto per le persone più povere e semplici, sono aiuto, compagnia e consolazione.
L’antropocentrismo tirannico di antica tradizione che considera esclusivamente gli interessi dell’uomo e disprezza il desiderio di vivere (e di vivere bene) degli animali, è dunque per i cristiani fermamente da rifiutare. Ancor più se quell’antropocentrismo ha pretese teologiche. Ancor più se quelle pretese teologiche non hanno corrispondenza con la Bibbia, ma, semplicemente, con la tradizione ecclesiastica.
Ogni volta che ci troviamo in una posizione di potere su degli indifesi, il nostro obbligo morale di essere generosi e solidali aumenta in proporzione al grado di debolezza dei soggetti in questione.
La presunzione dell’intelligenza è la vera stoltezza davanti a Dio.
Il "primato della razionalità", che vantiamo di possedere, si esprime nell’umiltà.
Il tipo di dovere rivelato da Cristo è sempre e comunque il dovere del "più alto" di sacrificarsi per il "più basso"; per il forte, il potente, il ricco, si tratta di dare a coloro che sono deboli, indifesi e poveri.

È la pura e semplice vulnerabilità degli animali, cui corrisponde il nostro potere assoluto su di essi, che impone la generosità morale.
Noi dobbiamo essere presenti alle creature non-umane come Dio è presente a noi.
Quando parliamo di superiorità umana parliamo di qualcosa di gran lunga più simile al servizio (inteso in senso cristiano) che alla dominazione.
Non ci può essere potere senza servizio e viceversa.
Il nostro valore speciale nella creazione consiste proprio nell'essere utili agli altri!
L'idea che gli animali esistano per nostro beneficio ed uso è moralmente grottesca come il supporre che i bambini siano proprietà dei loro genitori e possano essere utilizzati a loro vantaggio.
Gli uomini sopportino da soli ogni malattia non compiendo esperimenti sugli animali, piuttosto che sostenere un sistema di abuso istituzionalizzato.
Sollevare una questione di questo tipo rischia di attirare l‘accusa di insensibilità verso le malattie umane e i loro spaventosi effetti, ma deve ancora essere chiarito se la conoscenza che può prolungare o salvare la vita umana debba avere la priorità su tutto.
Il riconoscimento in noi di una legge morale e di un valore spirituale importa tanto quanto la conoscenza capace di prevenire la morte e di alleviare il dolore.

L' idea che la vita umana ed il benessere degli esseri umani abbiano un così alto significato da giustificare l'uso istituzionalizzato di milioni di animali in procedimenti sperimentali che infliggono grande sofferenza dovrebbe essere definita in termini di idolatria.
Gli animali nei laboratori non soffrono proprio per renderci la vita più facile e più lunga, o per sostenere i nostri desideri di sempre nuovi cosmetici o sempre nuove medicine?
E gli animali non vengono dunque sacrificati per una specie che si arroga poteri divini e che considera i propri interessi come facenti indiscutibilmente parte dello scopo della creazione stessa?
Demitizzando un poco la questione, potremmo dire che la nostra tendenza idolatra consiste nel credere che la stima di noi stessi sia il principale ed unico criterio con il quale giudichiamo il valore di tutte le altre creature.
Se troviamo sconcertante questo linguaggio è perché abbiamo accettato, passo dopo passo, la posizione utilitaristica che accetta assiomaticamente che gli interessi dei deboli possano essere messi da parte per quelli dei più forti.
L’unicità della umanità consiste nella sua abilità a diventare "la specie che si sacrifica" (non "che sacrifica"!), per esercitare la sua piena umanità come cooperatrice di Dio nella redenzione del mondo.
Questa visione sfida le concezioni tradizionali del mondo che lo concepiscono come creato esclusivamente per uso o piacere umano, mentre il suo unico fine consisterebbe nel servire alla specie umana, ridotto di conseguenza al ruolo di semplice strumento.

Solo il più tenace attaccamento al pensiero della tenerezza di Dio verso tutte le creature potrà liberarci dalla nostra arrogante umanocentrica concezione del nostro posto nell’universo.
Nel breve periodo, lo smantellamento di istituzioni ingiuste come quella della sperimentazione animale e dell'allevamento intensivo, e la fine di pratiche "ricreative" quali la caccia e la pesca, comporteranno una qualche diminuzione del piacere degli uomini, o di alcune sue prospettive di lavoro e persino di alcune possibilità di vita.
Comunque la questione non è se si debba trarre guadagno dalle pratiche attuali, ma se tali guadagni non siano illeciti.
Troppe persone vogliono parlare genericamente di generosità verso gli animali mentre continuano a distruggere i loro habitat, a cacciarli per sport e a mangiare la loro carne.
Per apprezzare il guadagno morale derivante dal desistere dallo sfruttamento animale dobbiamo imboccare la via più lunga.
Se ci chiediamo se l'umanità ci abbia rimesso nell'ammettere l'immoralità dei guadagni illeciti ottenuti dalla diffusione della schiavitù, del razzismo e del sessismo, possiamo immediatamente vedere che ci sono stati certamente dei vantaggi derivanti da questo riconoscimento che senza sacrifici non sarebbero stati possibili."

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